I Rancid erano nella mia toplist scolastica di fine anni 90, insieme c'erano Greenday e Offspring a comporre la mia personale punktrinità, ma i Rancid avevano un posto speciale, perché la loro musica aveva il sottotitolo comune di un "Massidai" che non si sgonfiava mai, l'ideale soundtrack se sei un diciottenne da oltre vent'anni.
Poi cresci e pensi "Chissà dove saranno finiti?", e te li ritrovi trasformati in una band da saloon tutta birra and chips, più stonati e amici che mai.
Perché ammettiamolo, ritrovarsi Tim Armstrong e Lars Frederiksen trasformati in hamburger ambulanti è una visione che ha bisogno di un minuto per essere metabolizzata, ma poi capisci che la filosofia non è cambiata.
Ai Rancid non è mai importato nulla di piacere a qualcuno, non sono star di hollywood, non sono nati con il dono della voce da x factor e non finiscono sulle copertine di genere. Da quando li seguo, per i quattro di Berkeley conta soltanto piacersi e divertirsi.
Allora li guardi, irriconoscibili e contenti, sfigati e soddisfatti, uno spettacolo per gli occhi che cercano una bellezza che viene dal "chissenefrega, noi resteremo sempre Rancid" e non riesci a non pensare che se la passano meglio di tanti che cercano la perfezione, perché nel loro non cercarla c'è l'autentica bellezza.
E in tempi in cui l'immagine è tutto, Tim e Lars hanno stravinto.
Questa è Civilian Ways, un inno all'amicizia, e che amicizia, e sottinteso molto di più; non sarà un capolavoro ma le voci senza pretese, i riverberi da musichetta popolare e quel banjo che solletica qua e là fanno della End Session una serata tranquilla tra amici nel pub sottocasa.
Da ascoltare col sorrisino da vacanza sul volto