Nel complesso, mi ritengo un uomo fortunato. Perché ho avuto tutto dalla vita e la mia esistenza, sinora, è stato un party a bordo piscina? Niente affatto.
Sono fortunato perché la Vita mi ha tolto in misura maggiore di quanto mi abbia dato.
A volte, quando mi guardo attorno, vedo solo oggetti e ricordi di quelli che hanno intrapreso il viaggio di ritorno verso Sirio. Sono circondato dalle loro immagini, da monili che mi parlano di loro: statuine di fate colorate, abiti che non oso rimuovere, collane che non potrei mai indossare; oli preziosi per donna, che al solo tocco mi commuovono; pannolini per cuccioli, purtroppo mai utilizzati.
Alcuni di Noi hanno più passato che futuro; alcuni hanno più ricordi che giorni da spendere.
La Vita mi ha condotto dai peggiori bar di Caracas (in realtà, si tratta di localini di provincia, ma era solo per citare una celebre pubblicità …) alle ville dal lusso eccessivo; mi ha fatto conoscere la strada e le nuvole; la gloria e l'offesa; mi ha offerto il conforto di una stanza e il brivido dei vicoli; la vita mi ha mostrato la banalità della violenza e la pesantezza di una lacrima sconosciuta. Mi ha regalato emozioni di incomparabile bellezza e dolori di insanabile profondità.
Se hai Fede, allora sai di essere come un Veliero, un Vascello votato all’avventura in questo meraviglioso racconto che si chiama VITA: la via da seguire dipende da me, ma anche da Chi mi conduce. E so di avere scelto una buona guida. O, magari, è Lui che ha scelto me. O, per esser equi, sappiamo di esserci scelti a vicenda.
Per due volte, la Vita mi ha costretto a pronunciare queste parole:
“Io ti amo, e voglio che resti per sempre con me; ma se il dolore di questo corpo è troppo forte; se il peso della sofferenza è troppo grande e il ticchettio dell’ultima ora è divenuto insopportabile … Io non ti trattengo.
Se devi andare … Ti lascio andare”.
Due volte. Forse tre, se includo quella in cui questo discorso era rivolto a me stesso.
Non si muore solo quando il cuore smette di pulsare; si muore quando la Vita smette di fluire. L’arresto degli organi vitali è solo una conseguenza inconscia di una Non-volontà o Non-capacità di proseguire l’avventura terrena. L’esperienza personale mi ha insegnato che un corpo cede solo se questo è l’unico modo per salvaguardare l’Anima.
Cosa dire di me; sono morto? Si. Il mio cuore ha mai smesso di battere? Certo che si. Sono rinato? Questo devo ancora scoprirlo.
Quello che ho imparato è che la nostra nascita terrena sembra un atto voluto da altri (il karma che ci vuole quaggiù; mamma e papà che ci hanno voluti qui ecc.), ma RINASCERE è un impegno, una scelta che è SOLO NOSTRA. In questo, non c’è nessun altro responsabile se non NOI STESSI.
Quando ho lasciato andare coloro che amavo, e che amo ancora con tutto me stesso, è stato un atto di indicibile dolore, per me. Ma amorevole verso loro.
Quando ho lasciato morire me stesso, stavo lasciando andare qualcuno a cui tenevo molto, forse anche troppo, ma DOVEVO, affinché un nuovo ME spuntasse da quella crisalide con le sue ali di falco.
Quando nasciamo la prima volta, e siamo poco più che simpatici fagotti frignanti, il lavoro e la fatica è di chi ci consegna alla Luce di questo Mondo; ma, quando RI-NASCIAMO mentre siamo in vita, semmai accettiamo di rinascere, il dolore è tutto nostro; lo sforzo, il sudore, il tormento delle carni che si dilatano per lasciar sbocciare l’Anima, è SOLO nostro. Un dolore insostenibile. Ma che non mi pentirò mai di aver scelto.
Il film “The Crow: City of Angels” è il volenteroso ma deludente sequel del primo, grande “The Crow” con Brandon Lee; l’attore del seguito, Vincent Perez, ha carte buone nel suo repertorio, ma va giù per knock-out alla prima (e ci sarebbe andato chiunque) nel confronto col figlio di Bruce Lee.
A pochi minuti dalla fine, però, ci regala un motivo per distillarne una goccia d’oro da conservare. Una frase che porterò sempre con me.
Judah Earl, l’antagonista cattivo, sentenzia: “Non hai più nessun potere; non ti è rimasto che il dolore”;
Replica Ashe (Vincent Perez), con me che lo accompagno all’unisono:
“IL DOLORE È IL MIO POTERE”.
Il peso che decidiamo di sostenere nel lasciar andare coloro che amiamo, e anche nel lasciar andare quello che amiamo di Noi stessi … quel dolore tempra, forgia, scolpisce, addestra e rimette a nuovo l’Anima.
Ho imparato che il suo peso è la fonte di energia che permette al ME di diventare TE, e al pronome IO di diventare NOI.
Perché da questa esperienza, prima o poi, passiamo tutti. O non saremmo qui.
- Ci vediamo al Bivio, Ragazzi.
VVB
(P.S. nella foto, il mio incontro con me quando ero piccolo ...)