Alice Cooper non è il mio songwriter preferito ma, per alcune composizioni, gli sono debitore di qualche giro di shot sul mio conto.Eat Some More è uno di quei brani che fa la differenza. Incastonato nel cuore delle 11 tracks di Brutal Planet (2000), uno degli album più ruvidi e ispirati dell’artista del Michigan, E.S.M. affronta il tema della bulimia e dello spreco di cibo proprio del costume Occidentale, ma la sensazione è che i versi denuncino un “abbuffarsi smodato” che va oltre l’alimentazione.
Costruito su una base di accordi grevi, claustrofobici e senza sobbalzi, il pezzo ha una struttura da loop bloccato (4 strofe, 4 frasi di bridge, 4+4 nel ritornello) e privo di varianti.
Tetra e fragorosa, la melodia si trascina per oltre 4 minuti col passo pesante di chi ha trangugiato “Sessanta milioni di tonnellate di carne”. La post-produzione, volutamente “sporca”, confeziona un brano graffiato da suoni sgraziati, cigolii gracchianti da catena di montaggio, scordature meccaniche che evocano l’immagine di un’industria senza porte d’uscita in cui uomini-macchina lavorano prigionieri di altre macchine.
Il clima teso e ridondante si alleggerisce quando il rassegnato coretto intona i quattro versi-ponte che introducono il climax centrale:
“Non ci rendiamo conto di quanto siamo ciechi / Stiamo affondando per il nostro peso”.
Il ritornello è semplice, diretto e impietoso: “Non è bello sprecare / Non siamo felici finché non scoppiamo / Quindi mangiamo ancora e ancora / Fino a crollare sul pavimento / Così affamati, così patetici”.
I pasti somministrati da tutti i big mondiali del fat-food (“cibo grasso”) hanno due caratteristiche comuni: apporto calorico mostruoso, valore nutritivo zero. Una serata al Mac o al Burger ti lascia con la sensazione di aver mangiato troppo e poi, all’improvviso, di non aver mangiato nulla. Si torna a casa affamati, e ne vogliamo ancora. E ancora. E la ragione è semplice: quello che abbiamo ingerito è nulla. Aria. Vuoto. Non è cibo. È putrefazione, additivi e conservanti.
La forma mentis da fast-food non attiene soltanto alle diffuse e cattive abitudini alimentari; è ormai uno stile di vita, un modo di approcciare quello di cui ci nutriamo, soprattutto in ambito culturale.
Tra miliardi di siti, e migliaia di ricercatori fai-da-te creati in laboratorio dalla logica dell’usa-e-getta, i big dell’informazione sfornano notizie e teorie in quantità industriale, così volgarmente indorate da sembrare credibili; ci abbuffano di cultura vuota, di video e riletture colme di grassi saturi che prima ti danno la sensazione di una scorpacciata natalizia e poi, di non aver imparato nulla. È così che ricomincia la caccia alla notizia, alla teoria a più strati, mai lucidi, mai appagati, appesantiti “dal vuoto che divoriamo”, “non ci rendiamo conto di quanto siamo ciechi”.
Ci propongono tre libri all’anno dello stesso autore e noi, mai sazi, mai soddisfatti, ne pretendiamo quattro, cinque e magari di più, perché la regola aurea del fat-food è butta giù “fino ad affondare”. Eternamente affamati, si fa il pieno del nulla, si esplode di nozioni vuote e non se ne ha mai abbastanza.
Ci si trascina, pesanti e intontiti, ingombranti come Slam Balls da 100 kg, gonfi di idee spazzatura, mendicando teorie ingurgitabili purché sterili, mai “felici finché non scoppiamo”, convinti di aver assaggiato il frutto proibito dell’anno.
E qui, di maestri dell’abbuffata nozionistica, di cervelloni rigonfi di idiozie sature ne abbiamo visti transitare così tanti da averne la nausea.
Masticano parole grasse, sputano pensieri vuoti, corpulenti fino ad esplodere di vacue convinzioni, habitué dei fast-food della non cultura, si riempiono di Nulla per insegnare il Nulla.
“Così affamati. Così patetici”.
Ci Vediamo al Bivio, Ragazzi.
VVB
Questo è il link del brano: