La piccola casa era spuntata su una collina di zucchero, con un castello
medievale e una chiesetta a proteggere i suoi orizzonti.
La notte sapeva essere così profonda da
scoraggiare quelli della mia specie a guardarla negli occhi; si spingeva oltre una
strada color carbone che si immergeva in una liquida oscurità e, da laggiù,
proveniva di tutto: passanti, girovaghi, messaggeri, esseri di mondi innocui. A
volte nel buio rantolava un motore invisibile,
un sibilo danzante, una musica senza strumenti.
Io sedevo sul palmo di una mano rosea
contornata da alberi senza frutti e coperta da cieli pieni di amici. Le
panchine, attorno, brillavano di lucciole di cartapesta.
E vedevo le vite sommerse, i viaggi
ininterrotti tra il silenzio e le promesse; immaginavo i posti da cui
provenivano, le parole che avevano inciso, i ricordi che avevano lasciato. Ero spettatore
di ogni anima che voleva essere ammirata, che usciva dal buio e ritornava nel
buio, illuminandosi solo nel tempo del passaggio.
Ero un re su un trono di arcobaleno.
E mi sentivo al centro del mondo.
Quel posto esiste. Il suo nome è ovunque.
Cercate sulle mappe, cercate nelle cronache, cercatelo nei Testi Sacri.
Ma se non ci crederete non lo troverete.
Alcune favole hanno bisogno di essere
vissute prima di essere trascritte.
VVB